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Giornalisti uccisi: la verità é in pericolo

Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) ha pubblicato oggi il risultato delle indagini che ha svolto sulle morti e i ferimenti di giornalisti durante il conflitto in corso tra Israele e Palestina. In meno di 2 mesi sono stati uccisi 63 giornalisti. Il primo mese di guerra è stato il mese con il più alto numero di giornalisti caduti da quando il CPJ ha cominciato a raccogliere questi dati nel 1992. L’attacco di terra da parte di Israele a Gaza non fa distinzioni, i bombardamenti a tappeto colpiscono tutto e tutti e a questo si aggiungono svariate segnalazioni di arresti, attacchi e minacce ai giornalisti. Fa impressione il modo in cui la Israel Defense Force ha risposto alle domande delle agenzie di stampa in cerca di rassicurazioni, affermando di non poter garantire la sicurezza dei reporter che operano nella Striscia. Tutti i dettagli si trovano qui: https://cpj.org/2023/12/journalist-casualties-in-the-israel-gaza-conflict/

Dopo decenni se non secoli di convenzioni internazionali atte a garantire il rispetto dei più elementari diritti umani nei teatri di guerra, siamo tornati alla casella zero, ed è spaventoso quanto questo tema sia normalizzato o addirittura ignorato dal dibattito pubblico. Lo schema a cui assistiamo da 30 anni di guerre per procura, lontane, locali, è sempre lo stesso:

  • Le forze armate in campo non fanno nulla per proteggere i giornalisti, o addirittura li attaccano deliberatamente, in aperta violazione della Convenzione di Ginevra
  • I giornalisti, spesso freelance, sono di meno, devono autogestirsi, sono in pericolo e viene loro impedito con le buone o con le cattive di fare il proprio lavoro
  • Il pubblico è così completamente ignaro di cosa sta succedendo sul campo: sa solo che c’è un conflitto e che una parte è quella giusta e l’altra quella sbagliata, perchè glielo dice il suo governo

Tutto questo innesca un circolo vizioso che indirizza la storia nella direzione opposta a quella verso cui sembrava avviarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale: cronisti al seguito delle truppe (ricordate Full Metal Jacket?), cittadini informati e capaci di influenzare le guerre e anche farle finire esercitando la democrazia. Oggi sono in pericolo i giornalisti, quindi è in pericolo l’informazione, quindi è in pericolo la democrazia. Come Volpi Scapigliate chiediamo a gran voce che questa questione ritorni al centro dell’agenda politica, a cominciare dal nostro Paese.

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I cosiddetti “diritti umani” nell’era post-democratica

Il mondo celebra il 9 dicembre i “diritti umani” (aspetto qualcuno che mi spieghi che cosa sono: ho una laurea in Filosofia del diritto con Norberto Bobbio e oltre 40 anni di docenza alle spalle di Storia del pensiero politico, ma l’espressione mi sembra vaga e ambigua…) e precisamente in questa data, con tempismo eccezionale, l’Alta corte di giustizia inglese si pronuncia a favore dell’estradizione di Julian Assange negli Usa, il che vuol dire come minimo ergastolo se non morte per quello che io personalmente definii tempo fa “un eroe del nostro tempo”.

Contemporaneamente, nella medesima “giornata dei diritti umani” la nostra Corte di Cassazione conferma l’assoluzione per il fascista ucraino Vitaly Markiv, condannato in primo grado a 24 anni di reclusione per l’omicidio di Andrea Rocchelli, Andy per amici e familiari, ucciso mentre cercava di documentare i fatti seguiti al golpe ucraino, sostenuto da USA e UE, nella regione del Donbass. In seconda battuta Markiv, per la cui liberazione si è vergognosamente battuto il Partito Radicale Italiano (sempre in prima fila in questioni di giustizia!), era stato assolto, in Appello. E ora la faccenda viene dichiarata chiusa da questa sentenza che non smentisce l’impianto accusatorio ma rigetta la richiesta di un nuovo processo, avanzata dalla procura, per questioni di mera forma.

Trionfa dunque l’ingiustizia nell’era della post-democrazia, la quale, tronfiamente, goffamente, celebra i “diritti umani”.

Ma questi due fatti, scollegati fra loro, e accomunati dalla iniquità di una “giustizia” che in Italia come in Inghilterra si nutre di pura forma, e rigetta la sostanza, una “giustizia” che nulla ha a che spartire con la verità, sono collegati strettamente da un filo rosso (o piuttosto nero, nerissimo). Essi certificano la fine del diritto all’informazione. Rocchelli con le fotografie (bellissime, tra l’altro: autentiche opere d’arte) e Assange con il sito Wikileaks, hanno documentato le infamie della guerra, gli “arcana imperii et dominationis” (di cui parla Tacito), le vergogne del potere, le oscenità dell’ingiustizia globale. Il popolo deve sapere, aveva detto Lenin, rendendo pubblici i trattati segreti sottoscritti dallo Zar con le potenze imperialistiche. Dove esiste un potere invisibile non può esserci democrazia, mi ha insegnato Bobbio. E dunque?

Ciliegia sulla torta: sempre il 9 dicembre con una coda il giorno 10, si svolgevano le assise virtuali dell’autocelebrazione della “democrazia”, con il “Summit for democracy” convocato dal capo del paese che vuole vedere Assange sulla sedia elettrica (per avere raccontato la verità sulle guerre di “esportazione della democrazia”), o marcire a San Quintino. La stessa nazione che ha sostenuto il colpo di Stato in Ucraina, e che porta, sia pure indirettamente, la responsabilità dell’assassinio di Andy Rocchelli. Ebbene, il presidente Biden ha avuto l’improntitudine di dichiarare, nell’apertura della videconferenza, queste priorità per il sistema democratico: “Combattere la corruzione, difendere la libertà dei media e i diritti umani”.

Qualche anchorman, qualche ministro, qualche sottosegretario, qualche presidente, ha nulla da dire in proposito? Dobbiamo sempre chinare la testa e trangugiare il boccone, anche quando amarissimo?

Prof. Angelo d’Orsi
Già Ordinario di Storia del pensiero politico
Università degli Studi di Torino