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Cercare la verità, combattere la disinformazione, dare voce a chi non ha voce. 

Come Volpi Scapigliate abbiamo chiesto al nostro amico e giornalista Giacomo Bertoni di scrivere un pezzo in memoria di Andy, che oggi avrebbe compiuto 39 anni.
Ecco le sue parole, oggi in edicola sul quotidiano la Provincia Pavese.

Cercare la verità, combattere la disinformazione, dare voce a chi non ha voce. Oggi Andy Rocchelli avrebbe compiuto 39 anni e noi vogliamo ricordarlo perché crediamo che queste parole non siano solo slogan. Vogliamo ricordarlo dalle pagine del quotidiano di Pavia, perché Andy era pavese ed era giornalista. 

Andy era un fotoreporter: con la macchina fotografica al collo osservava il mondo e andava là dove la Storia si scrive. Lo ha fatto a Beslan, nell’Ossezia del Nord, repubblica autonoma nel Caucaso Settentrionale, una città schiacciata da un passato di conflitti e un presente minacciato dall’estremismo islamico. Lo ha fatto a Osh, città che si trova a sud del Kirghizistan, dove la popolazione kirghisa e la minoranza uzbeca hanno intrapreso uno scontro violento. E ancora in Libia, dove la Primavera araba ha portato migliaia di persone a cercare di fuggire dal Paese, e in Calabria, dove la criminalità organizzata non perdona chi dice “no” ai suoi ricatti. Andy partiva, si immergeva in quelle realtà ferite per comprenderle prima e immortalarle poi. Per farle conoscere all’opinione pubblica, per rendere noti fatti che non trovavano e non trovano spazio nelle edizioni delle 20 dei telegiornali nazionali. 

Cercare la verità, combattere la disinformazione e dare voce a chi non ha voce non erano per Andy la scritta perfetta per un post da rilanciare sui social, erano semplicemente la quotidianità. È con questo spirito che nel maggio del 2014 Andy arriva in Ucraina, in un Donbass straziato dalla guerra fra esercito ucraino e separatisti filorussi. Lì fotografa le famiglie ucraine che si nascondono negli scantinati per sfuggire ai terribili colpi di mortaio che tutto distruggono. A guardare gli scatti di Andy, che faranno il giro del mondo, sembra di sentire il sibilo dei mortai e le voci concitate dei civili che cercano riparo. Ecco, i civili. Sono proprio loro le prime vittime di ogni conflitto, di ogni sopruso, di ogni abuso di potere. È proprio su di loro che Andy puntava l’obiettivo, per raccontare storie che la propaganda incrociata delle guerre cancella o strumentalizza. 

Il 24 maggio del 2014 i colpi di mortaio dell’esercito ucraino hanno rotto per sempre la sua macchina fotografica, ma la storia di Andy continua ogni volta che giornalismo e opinione pubblica si ritrovano dalla stessa parte della barricata per chiedere risposte a chi detiene il potere. Anche oggi, ne siamo certi, l’Andy 39enne sarebbe in giro per il mondo a raccogliere voci che altrimenti non avrebbero voce. Buon compleanno Andy, Pavia non ti dimentica. Giacomo Bertoni per Le Volpi Scapigliate 

Ad otto anni dalla sua morte ed all’inizio del conflitto che sta scrivendo la storia Europea dei nostri giorni, un documentario ha raccolto le inedite testimonianze dei militari ucraini che erano sulla collina di Karachun, da cui partirono i colpi di mortaio quel giorno. The Deserter, proiettato a Modena il 25 settembre, ha ottenuto la menzione speciale al DIG Festival, confermando le responsabilità evidenziate già dai processi.

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Dal 24 maggio 2014 a oggi: 8 anni di consapevolezza

Sono passati otto anni da quel maledetto 24 maggio 2014, quando l’esercito ucraino insieme alla Guardia Nazionale Ucraina decise di aggredire i giornalisti che stavano documentando i fatti del Donbass, uccidendo Andrea Rocchelli e Andrej Mironov e ferendo gravemente William Roguelon, scampato miracolosamente al tiro di saturazione dei militari, finalizzato all’eliminazione fisica del convoglio di civili.

Oggi assistiamo ad un quadro geopolitico stravolto, irriconoscibile, ma che affonda le sue radici in quei giorni. L’invasione russa ha martoriato la popolazione civile di una terra che già prima non trovava pace, schiacciata com’era tra l’incudine di un passato sovietico ingombrante e il martello di una spontanea tensione democratica ed europea sostenuta però da forti pressioni atlantiche. Ogni giorno si consumano massacri e violenze, e ogni giorno questa guerra ci ricorda che possiamo avere tutti i social e i giga del mondo, ma la guerra ha la caratteristica di silenziare i testimoni e quel che resta è sempre e solo propaganda.

La guerra e il mancato rispetto dei civili e dei giornalisti in primis vanno a braccetto. Considerare la guerra come un’opzione per risolvere le controversie e liberarsi di chi non si fa i fatti propri sono due facce della stessa medaglia. Non può esserci guerra se l’opinione pubblica conosce l’orrore. Chi vuole la guerra vuole anche la disinformazione. Ne ha bisogno, se ne nutre. Ed è per questo che noi dobbiamo difendere i giornalisti. Sono la nostra coscienza e insieme la nostra assicurazione sulla vita. Quando vengono presi di mira i giornalisti, è il segno di qualcosa di profondo che non quadra.

Stessa identica situazione in Palestina, dove due settimane fa la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh è stata assassinata dai militari israeliani. Scritta “press” cubitale ignorata, palleggio di accuse, silenzio o narrazione pilatesca dei media internazionali, zero assunzione di responsabilità da parte del governo israeliano. E via verso il nuovo omicidio del prossimo giornalista che sarà nel posto giusto con un esercito che riceve l’ordine sbagliato.

Oggi è il tempo di raddrizzare questa stortura. Come nei decenni si è accettato che la Croce Rossa soccorresse i feriti nelle zone di guerra, senza che nessuno per l’appunto sparasse sulla croce rossa, perchè solo benefici possono provenire dalle cure mediche, così bisogna riconoscere che il lavoro dei cronisti e dei reporter porta sui teatri di guerra quella cura insostituibile che si chiama verità. E’ logico che al dittatore di turno dia fastidio, ma la verità fa troppo bene a tutti noi nel lungo periodo perchè possa essere ignorata. La verità rende liberi. Liberi dalla guerra. Da tutte le guerre, da quest’ultima in Ucraina a tutte le altre, quelle dimenticate.

Il nostro percorso per la libertà di stampa e i diritti civili continua ed è vivo più che mai, assieme alla sensazione di vivere momenti decisivi della storia. Proprio il 24 maggio viene inaugurata presso il circolo Radio Aut di Pavia una mostra fotografica di Andy Rocchelli sulla primavera araba, per non dimenticare un’altra pagina di storia che non sarebbe stato possibile comprendere senza giornalisti veri sul posto. Il 27 maggio alle ore 20.30 andrà invece in onda una nuova puntata di Spotlight su RaiNews 24 sempre dedicata a Andy. Continuate a seguirci e stare al nostro fianco: vi promettiamo che ne vale la pena.

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Dal Donbass all’invasione, una escalation durata 8 anni: la nostra condanna alla guerra in Ucraina

Proprio in queste ore gli eventi in Ucraina stanno precipitando. Le forze armate russe attaccano in massa la maggior parte delle città del Paese, ben al di là dei confini delle repubbliche di Donetsk e Luhansk. E’ guerra aperta, nel cuore dell’Europa, a diversi decenni di distanza dall’ultima crisi di questa portata. E tutto è partito dal martoriato Donbass, dove noi abbiamo perso un amico, un reporter, una fonte di ispirazione. Da 8 anni siamo legati agli sventurati popoli di quelle terre da un filo rosso intessuto di empatia e partecipazione. Per queste ragioni, oggi sentiamo l’urgenza di esprimere una riflessione su questa situazione, che pure è più grande di tutti noi.

Per prima cosa sgombriamo il campo dai dubbi insinuati da chi in questi anni ci ha voluto collocare da una parte o contro l’altra. Il governo nazionalista ucraino in questi anni ha fatto ben poco per migliorare la propria situazione e quella della propria gente. Da un lato il costante braccio di ferro con Mosca, dall’altro l’incapacità di darsi un profilo democratico di tipo occidentale, come si è ben visto ad esempio nella mancanza di collaborazione con l’Italia in una intricata vicenda di diritto internazionale come quella dell’omicidio di Andy e Andrej, lo hanno collocato in una posizione perennemente ambigua. Ciò posto, e pure ammettendo che la prospettiva di ritrovarsi la NATO alle porte non potesse passare esattamente inosservata al Cremlino, l’iniziativa odierna di Putin è ben più che sproporzionata e assume i contorni di una follia imperialista d’altri tempi. Si preannunciano morti, miserie, atrocità: parliamo di una responsabilità morale, politica e storica enorme.

Noi non simpatizziamo per nessun governo. Noi siamo per la pace e contro la guerra sempre, senza distinzioni, e sempre dalla parte della popolazione civile. In questo momento ciò che ci sta più a cuore è la gente dell’Ucraina, che come sempre in questi casi subisce le conseguenze e paga il prezzo più alto, senza avere voce in capitolo. In generale crediamo che nel 2022, con gli strumenti intellettuali di cui disponiamo e all’uscita da una dolorosa pandemia, una escalation che porta all’invasione di uno stato sovrano e alla guerra aperta nei suoi territori sia un fallimento da parte di tutte le diplomazie del mondo. Non dovrebbe succedere mai, non dovrebbe succedere più, e sicuramente non qui e non adesso. Siamo troppo piccoli in un universo ostile per permetterci ancora di farci male da soli così.

Se non siamo stati in grado di evitarlo, ci auguriamo almeno di poter avere una copertura giornalistica all’altezza degli eventi, cosa resa difficile in luoghi dove la tutela dei reporter non è una priorità ed essi anzi diventano facilmente obiettivi di guerra, come abbiamo imparato dal modo in cui l’esercito ucraino uccise deliberatamente Andy e Andrej. Ci aspettano mesi di propaganda incrociata e menzogne. Il modo più efficace di arginare la guerra è fin dal Novecento la mobilitazione in massa dell’opinione pubblica. Ma perchè ciò sia possibile è necessario prima che sia informata. Che sappia la verità. A questo servono la libertà di stampa e la tutela dei giornalisti. Aspettiamo di leggere i vostri reportage, nella speranza di poter smettere un giorno di dovervi chiamare eroi.