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Usciamo dal bunker

C’è una fotografia di Andy Rocchelli che colpisce più di qualunque altra. E’ quella che ritrae i bambini rintanati nello scantinato, durante il conflitto in Ucraina. Per ottenere uno scatto così serve tempo. Bisogna guadagnare la fiducia della popolazione civile, vivere la loro guerra, osservare senza giudicare.

Sono i documenti come questo che segnano il nostro tempo, influenzano le nostre coscienze e finiscono con l’indirizzare la storia del genere umano. Sono i documenti come questo che possono estrarre una goccia di splendore da un oceano di dolore, e magari aiutarci a diventare migliori.

Andy è morto in quella guerra, assassinato in un brutale agguato teso ai danni di reporter civili. Quel che è successo rappresenta una ferita aperta per tutta la comunità e per il mondo di persone attorno ad Andy. Ma è anche un simbolo della minaccia costante a cui sono sottoposti coloro i quali fanno per lavoro i testimoni del lato più oscuro della nostra sgangherata umanità. E’ grazie a loro se sappiamo, è grazie a loro che impariamo, è grazie a loro che possiamo rimboccarci le maniche e provare a fare meglio.

Gli Andy Rocchelli di tutto il mondo sono eroi loro malgrado. E’ invece nostra responsabilità batterci perché non debbano più esserlo, perché possano essere semplicemente quello che sanno essere: la nostra coscienza in trasferta, il nostro modo per conoscere, il nostro diritto a migliorare.

E’ per questo preciso motivo che il processo attualmente in corso presso il Tribunale di Pavia rappresenta una battaglia di civiltà dall’altissimo valore simbolico per tutti. Occorre ricostruire cosa è accaduto in quella brutta giornata del 2014. Occorre trovare la verità. Occorre tracciare una linea, per ricordare all’intera comunità che oltrepassare quella linea significa commettere un crimine imperdonabile contro la comunità stessa.

Ora più che mai serve partecipazione. Servono voci civili che si alzino a pretendere giustizia. Per Andy. Per i reporter di tutto il mondo. Per tutti noi.

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